Rilke e Debenedetti lettori di Kafka   

Rainer Maria Rilke

Rilke e Debenedetti lettori di Kafka

Praga 13 luglio 1920.

In una lettera a Milena Jesenskà, la scrittrice boema che ha tradotto i suoi primi racconti, Kafka confessa:

«E tuttavia io non amo te, ma qualcosa di più, la mia esistenza donatami da te».[1]

È un passaggio che si ritrova puntualmente nella scrittura di Rainer Maria Rilke, il grande poeta nato anch’egli a Praga nel dicembre 1875, tra i primi estimatori di Kafka.

Un consistente riscontro può ravvisarsi attorno alla metà degli anni Dieci in occasione della lettura pubblica, il 10 novembre 1916, nella galleria Goltz di Monaco, del racconto Nella colonia penale da parte dello stesso autore, il quale il 7 dicembre scrive al riguardo alla fidanzata Felice Bauer:

Ho sfruttato la mia scrittura come un veicolo per andare a Monaco, una città con cui non ho la minima affinità spirituale, e dopo due anni in cui non ho scritto niente ho avuto la sfrontatezza di fare una lettura pubblica, mentre da un anno e mezzo non ho più letto niente ai miei migliori amici di Praga. Del resto, anche dopo il mio ritorno a Praga ho ricordato le parole di Rilke. Dopo aver detto qualcosa di gentile sul Fuochista, si è dichiarato convinto che né La metamorfosi né la Colonia penale sono altrettanto conseguenti. La sua osservazione non è subito comprensibile, ma è piena di intelligenza.[2]

La lettera è riproposta nella monumentale biografia di Reiner Stach il quale in nota fa rilevare:

Non esiste purtroppo una testimonianza univoca sulla presenza di Rilke alla lettura di Kafka. Tuttavia il taccuino di impegni di Rilke suggerisce che la sua osservazione deriva da un colloquio diretto con Kafka, e non, per esempio, che gli venne riferita.

È ipotizzabile che, al di là della presenza o meno a quella lettura pubblica, Rilke già in precedenza si sia avvicinato all’opera di Kafka se nello stesso novembre 1916 è in grado di confrontare lo scritto Nella colonia penale, ancora inedito, con La metamorfosi e Il fuochista.

In quest’ultimo caso si tratta peraltro non di un testo autonomo ma del primo capitolo di Il disperso, il romanzo pubblicato postumo nel 1927 con il titolo America, la cui stesura, iniziata nel 1912, era stata più volte sospesa fino alla interruzione definitiva nel 1914/15, ma di cui l’autore aveva deciso di salvare quel capitolo autorizzandone la pubblicazione nel maggio 1913 con il titolo Il fuochista. Un frammento.[3]

Probabilmente Rilke lo ha letto già allora avviando con Kafka un rapporto di reciproca attenzione destinato a non interrompersi se in una lettera del 17 febbraio 1922 può confessare che del pacco di nuove pubblicazioni ricevute dall’editore Kurt Wolff ha letto il Medico di campagna prima di ogni altra cosa.[4]

Non sono tuttavia registrabili suoi giudizi sull’opera di Kafka al di là dell’apprezzamento relativo a Il fuochista, il cui controverso movimento d’avvio recita:

Quando il diciassettenne Karl Rossmann […] entrò nel porto di New York sulla nave che aveva ormai rallentato, vide la Statua della libertà, già visibile da molto tempo, immersa nella luce del sole che sembrava divenuta all’improvviso più forte. Il braccio con la spada svettava come appena alzato, e intorno alla sua figura soffiavano libere le brezze.[5]

Fa rilevare Mauro Nervi nella Nota introduttiva:

La dea che alza la spada non è quella della libertà, ma della giustizia; e tutto il romanzo che seguirà è di fatto all’ombra di quella spada, in uno sforzo inesausto, e per lo più frustrato di garantire al più debole la giustizia nei confronti del più forte, e di far emergere la verità dei fatti quando l’oppressore falsifica la verità per meglio sfruttare o eliminare gli oppressi.[6]

Non v’è dubbio che la sostituzione della spada alla torcia sia da parte di Kafka un gesto consapevole che configura plasticamente la sua insopprimibile esigenza di giustizia in un sistema di rapporti sociali basato sulla menzogna e l’autoritarismo di un potere che talvolta preferisce farsi beffe invece di colpire direttamente.

Sulla singolarità della tecnica narrativa estendibile all’intero romanzo Il disperso, ancora Mauro Nervi:

Caratteristica formale importante in tutto Il Disperso è la continua irruzione di visioni, contemporaneamente chiarissime e inesplicabili, tutte di straordinaria bellezza e implacabile precisione, che sfilano davanti allo sguardo meravigliato di Karl e del lettore.[7]

Il tratto portato qui all’evidenza è di fatto peculiare di tutto il percorso creativo di Kafka, sul quale continuano a intrecciarsi molteplici linee interpretative tra le quali non trascurabile, anche se pressoché ignorata dagli addetti ai lavori, è quella avanzata nell’immediato secondo dopoguerra dal grande saggista/scrittore Giacomo Debenedetti.

È il caso del suo saggio Personaggi e destino, presentato in occasione della “Settimana dello scrittore” a Perugia nel settembre 1947, nell’ambito di una riflessione sulla narrativa europea tra Otto e Novecento, contrassegnata dal passaggio da una logica positivistica a una di tipo relativistico.

Recita il saggio, emblematico fin nel titolo:

Arrivato sugli orli donde si apre quell’altro spazio, quello spazio non più euclideo, Kafka ha guardato senza accusare le vertigini, e non ha più chiesto riferimenti alle forme, figure e solidi della buona, inservibile geometria che misurava la Terra. In altri termini, è il figlio che ha perduto il padre, e della propria orfanezza e degli squallori e sgomenti di questa solitudine fa la sua nuova condizione umana, con uno spietato, desolato coraggio ultimo, che non cerca compromessi nella nostalgia. Sa che ormai tutto quello che vede, tutto quello che può ancora capitargli, non vale di andarlo a dire all’ombra del padre: il padre non capirebbe più.[8]

A un decennio di distanza Debenedetti decide di inserire nella Biblioteca delle Silerchie, la collana del Saggiatore che ha fondato nel 1958 destinandola agli autori che gli sono più cari, testi di Kafka che ritiene particolarmente funzionali alla sua indagine.

Attento a scoprire gli scrittori dove la curva del loro destino si disvela assumendo una forma oracolare, sceglie in primo luogo la celebre Lettera al padre, scritta nel 1919 e mai pubblicata in vita, nella quale si verifica quella presa d’assalto della centrale dei divieti emblematizzata nella figura del padre quale detentore dei modelli ovvero di quegli imperativi che rendono gli esseri umani schiavi.

Una scelta quindi sostanzialmente scontata che contrasta in qualche misura con quella successiva relativa a uno scritto minore del primo Kafka, Preparativi di nozze in campagna, del 1907/1908, che consiste in frammenti di quella che avrebbe dovuto essere una lunga narrazione di cui Max Brod ricorda di aver ascoltato dallo stesso autore la lettura di alcune pagine nel 1909.

Accogliendo nella Biblioteca delle Silerchie del 1960 il primo dei tre Manoscritti pervenuti dei Preparativi, Debenedetti avverte non a caso l’esigenza di giustificare la scelta con una Presentazione, che è di fatto una lettura di notevole agilità argomentativa:

La continuità temporale del racconto, come la continuità spaziale della tela per i pittori cubisti, giustappone momenti e aspetti di realtà oggettiva continui e discontinui, divenuti reciprocamente estranei. Fatti, figure, luoghi, apparizioni così accostati e interferenti sembrano comunicare tra di loro, mentre rimangono vicendevolmente ermetici, esclusi da qualsiasi possibilità di spiegarsi gli uni con gli altri.

Si veda, per esempio, la topografia della città (una irriconoscibile e innominata Praga) dove il protagonista Raban compie il suo lungo cammino verso la stazione; si ascoltino, nel secondo capitolo, i dialoghi tra i viaggiatori; così arcani, così allusivi a qualcosa di non rintracciabile, sebbene si aggirino su cose di tutti i giorni espresse con parole di tutti i giorni.

È di tutta evidenza che l’obiettivo di Debenedetti nell’inserire quel testo giovanile è di sottolineare che già all’esordio sono riconoscibili i tratti peculiari del narratore maturo:

Raban, il protagonista dei Preparativi, si augura disperatamente di trasformarsi in un coleottero. Il suo augurio sarà dolorosamente esaudito dal viaggiatore di commercio Samsa, il protagonista della Metamorfosi. Così, i Preparativi aiutano a discernere con più attenzione, tra i multipli e intrecciati motivi della Metamorfosi, una componente di vendetta, di struggente ritorsione, di autolesionistica rivolta.[9]

Nel percorso erratico delle lezioni universitarie degli anni 1962/1964 Debenedetti ferma ancora l’attenzione su  Kafka:

Nella carica diretta, istintiva della sua fantasia, Kafka è arrivato a spingere tanto oltre la deformazione quantitativa fino a farne una metamorfosi qualitativa, a trasformare la figura umana in quella di un millepiedi.[10]

Quindi si spinge fino a riconoscere esplicitamente al grande praghese il merito di avere istituito tale deformazione quale articolo primo della poetica ‘più doverosa’ per l’artista moderno:

Usa infatti il pronome “noi” invece che il pronome “io”, abituale dei suoi diari e appunti e riflessioni, per enunciare questa massima, che è quasi un precetto, una conditio sine qua non di quella che gli pare l’arte vera: “La nostra arte” dice “è un essere abbacinati dalla verità. Solo la smorfia che si ritrae sul volto è vera, e nient’altro che questo”.[11]

In un passaggio di Confessioni e diari Kafka offre al riguardo una fulminea conferma:

L’arte è un essere abbagliati dalla verità. Di vero non c’è altro che la luce proiettata sul viso, che arretra in una smorfia di sbigottimento. [12]

In questa singolare, tragica, ricerca di verità in cui Kafka consuma la sua esistenza è innegabile che la tana / rifugio da cui mai si allontana si chiami Letteratura.[13]

Soccorre la sua confessione, al limite della provocazione, all’amico di sempre Max Brod:

Io non ho un interesse letterario, ma sono fatto di letteratura, non sono e non posso essere altro.[14]

 

Rosita Tordi Castria

NOTE

1° Torna alla mente la riflessione di Antonio Tabucchi con la quale nel marzo 2022 ho aperto i lavori del convegno promosso da S.I.C.L. Della Giustizia in Letteratura, la cui sezione conclusiva, realizzata in collaborazione con l’altra società di comparatistica COMPALIT fondata da Remo Ceserani, era dedicata all’insigne lusitanista:

“La realizzazione di una giustizia più giusta distribuita agli abitanti di questa Terra è un sogno al quale vale la pena di dedicare il nostro stato di veglia”.

Non v’è dubbio che Tabucchi, nel suo saggio del 2008 Per un mondo più umano, affronti un nodo nevralgico della scrittura di Franz Kafka,

il cui tratto fondamentale è la percezione dell’ingiustizia sociale, dello sfruttamento del più debole, delle tecniche del dominio.

2° Dopo la sezione L’Autore, in cui Deb. dà conto delle notizie principali della biografia di K., accenna alla Lettera al padre del 1919 e quindi fa rilevare che in quello stesso anno l’editore Kurt Wolff pubblica il racconto Il medico di campagna.

Interesserà di constatare che la prima stesura è più di “avanguardia” che la seconda, specie per la scomposizione delle immagini, che sembra presagire Segue la sezione L’Opera in cui D. accenna alla storia della scrittura di questo racconto:

“Max Brod crede di poter stabilire che, a parte certi brevi frammenti, Preparativi di nozze in campagna segni l’esordio letterario di Kafka. Il Primo Manoscritto dei Preparativi dovrebbe risalire al 1907, perché vergato ancora in caratteri gotici. Solo nel 1908 Kafka adottò i caratteri latini che sono quelli in cui si leggono il Secondo Manoscritto, e poi un terzo (omesso in questa edizione, perché quasi del tutto conforme al secondo). Tutte e tre le versioni ci sono rimaste su fogli staccati; la scomparsa di qualche pagina è segnalata a suo luogo nel testo qui tradotto.

Il primo abbozzo, più ampio, è scritto a lapis; il segno spesso sbiadito ne rende difficile la lettura. Non porta titolo: ma il Brod ricorda che Kafka voleva intitolare Preparativi di nozze di campagna quel suo romanzo. Le pagine a noi giunte sono infatti, con ogni probabilità, l’inizio di una lunga narrazione: il foglio 16, l’ultimo che possediamo del secondo capitolo, termina con una frase incompiuta. Il Secondo Manoscritto è una bella copia, scritta parte a penna e parte a lapis, in caratteri accurati e lasciata in tronco alla seconda riga del foglio 22.

Secondo Mauro Nervi nel testo di Kafka c’è sempre il conflitto tra due logiche parallele e inconciliabili: la logica aristotelica di cui il protagonista è il rappresentante e la logica aliena, incommensurabile con la precedente, che è la logica con cui il protagonista deve fare i conti e che solitamente ha la meglio.

Non v’è dubbio che lo strumento usato da Debenedetti per avvicinarsi a Kafka è la psicologia e in particolare la psicoanalisi anche se Kafka pur apprezzando Freud non confida affatto nelle capacità terapeutiche della psicoanalisi.

Mauro Nervi ritiene che la critica di ispirazione esplicitamente freudiana non abbia dato risultati produttivi, se non usata come strumento occasionale e accessorio. Un caso particolare di questo tipo di lettura è l’importante saggio del 1975 scritto a quattro mani da Gilles Deleuze e Felix Guattari, nonostante l’obsolescenza della terminologia.

Nella loro lettura Kafka diventa il rappresentante di un modo alternativo di fare letteratura, un percorso solitario le cui figure dell’alterità sono l’animale, il digiunatore, lo straniero, riuscendo a coniugare il comico e il politico, come sempre avviene nella grande letteratura.

[1] Franz Kafka, Lettere a Milena, Firenze, Giuntina, 2019, p.118

[2] La lettera è riproposta da Reiner Stach, Kafka. Gli anni della consapevolezza, ed. italiana a cura di Mauro Nervi, Milano, Il Saggiatore, 2024, p.169

[3] Mauro Nervi, Nota introduttiva a Franz Kafka. Tutti i romanzi. Tutti i racconti e i testi pubblicati in vita, Milano, Bompiani, 2023, p.1621

[4] Reiner Stach, Kafka. Gli anni della consapevolezza, op. cit. p. 744

[5] F. Kafka, Il Disperso, in Tutti i romanzi. Tutti i racconti e i testi pubblicati in vita, op. cit., p.39

[6] Ivi p.6

[7] Ivi p.26

[8] G. Debenedetti, Personaggi e destino. Saggi critici. Terza Serie, Milano, Mondadori, 1959; ora in I Meridiani, 1999, pp.910-912

[9] Ivi, p.1530. Giova al riguardo una citazione riportata da Reiner Stach a p. 470 di Kafka, I primi anni, Milano, Il Saggiatore, 2024: “Mentre sto a letto, ho l’aspetto di un grosso coleottero, un cervo volante o un maggiolino. […]. Il grosso aspetto di un coleottero, si. Poi faccio finta che sia un sonnellino invernale, e premo le zampette sul mio corpo panciuto. Poi sussurro qualche parola, sono ordini per il mio triste corpo che mi sta chinato accanto. Finisco alla svelta, lui si inchina, si allontana alla svelta e finirà tutto nel migliore dei modi, mentre io resto a riposarmi”.

[10] G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, I Meridiani, op.cit., p.1428

[11] Ivi.

[12] F. Kfka, Confessioni e diari, a cura di E.Pocar, Milano, Mondadori, 1972, p.726

[13] F. Kafka, La Tana, testo del 1923 /1924, pubblicato postumo da Max Brod, Berlino, Gottingen, LIWI Verlag, 1931.

[14] Franz Kafka – Max Brod, Un altro scrivere. Lettere 1904 – 1924, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1°ed. 2007, 2a ed. 2024, p.26

Rosita Tordi Castria
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