Piero Gobetti a 90 anni dalla sua morte
Un uomo si giudica per come vive e come muore. È un vecchio adagio di Seneca che sembra quanto mai appropriato per ricordare Piero Gobetti a novanta anni dalla sua morte avvenuta durante il suo esilio a Parigi il 15 Febbraio del 1926. Aveva solo 24 anni. Le bastonate dei fascisti avevano minato la sua salute.
Invece di indugiare sui giudizi, che sono spesso interessati ad appropriarsi della sua eredità culturale e politica, ci sarebbe da porre domande sul perché i due esponenti di punta del Liberalismo italiano, Gobetti ed Amendola, siano stati massacrati di botte senza nemmeno il “privilegio” del tribunale speciale.
Risulta evidente quanto siano state pericolose per il regime le idee e le opere dei liberali. Per Gobetti non ci fu la “tribuna” del tribunale speciale e il carcere duro o il confino. Venne sottratta a Gobetti l’esperienza di trovarsi innanzi al pubblico ministero Michele Isgro, quello che chiese per Gramsci una condanna “per impedire a quel cervello di funzionare per almeno 20 anni”.
La forza delle idee e dell’azione politico-culturale di Gobetti era veramente pericolosa perché più penetrante nei ceti sociali che dovevano essere oggetto di dominio assoluto attraverso la demagogia del regime. Un regime con l’uomo solo al comando e ostile alla divisione dei poteri. È il caso di sottolineare che è proprio il rispetto del principio della divisione dei poteri la vera cartina al tornasole per certificare il grado e l’intensità di un sistema liberal-democratico.
Il 12 febbraio del 1922 uscì il primo numero di Rivoluzione Liberale. Vi collaboravano personaggi di grande spessore culturale e politico come Luigi Sturzo, Giustino Fortunato e Antonio Gramsci. Insieme alle altre due riviste, Energie Nuove e Il Baretti, Gobetti dava impulso ad un’attività intensa che riusciva a mobilitare le coscienze degli intellettuali del suo tempo.
Sul quotidiano on line del PLI, che da pochi anni ha voluto chiamarsi “Rivoluzione Liberale”, campeggia una locuzione significativa: “Politica è cultura”. La “e” è accentata, per non lasciare dubbi sulla matrice culturale di riferimento.
In effetti a voler ricordare Gobetti non ci sono strade diverse da quelle che percorrono itinerari culturali. Gli itinerari che lui programmava per se medesimo quando dichiarava di voler studiare a fondo e rileggere Croce, di studiare Gentile e tutti gli autori che, con le loro opere, animavano le idee e le ideologie del suo tempo.
Questo suo impegno a studiare si accompagnava ad una fervente azione politica improntata all’intransigenza di fronte ad ogni forma di assolutismo nel solco della rigorosa tradizione post-illuminista e liberale presente nel Risorgimento.
Al centro del suo pensiero c’è la piena consapevolezza del fatto che “la politica oggi deve essere realizzata come forma di educazione”.
Quando si vuole affidare alla politica una funzione pedagogica non si può essere condizionati dalle indulgenze. Ecco perché assume significato particolare il pensiero gobettiano dell’intransigenza. A voler indicare delle parole chiave o delle locuzioni per spiegare, in sintesi, l’intensa e brillante esperienza politica e culturale di Gobetti, oserei fermarmi a: intransigenza, rigore nello studio, cultura, cultura e politica, cultura è politica.
Vari i temi affrontati da Gobetti. Per esempio, a proposito della democrazia partecipativa, era contrario al notabilato dei collegi uninominali e favorevole al proporzionale. Negli appuntamenti della storia, il pensiero liberale è sempre a favore dell’allargamento della democrazia partecipativa: non è un caso che fu il liberale Giolitti ad introdurre in Italia il suffragio universale.
Per concludere questa breve nota, mi preme riportare due delle sue illuminanti affermazioni:
«si può rinnovare lo Stato solo se la nazione ha in sé certe energie (come ora appunto accade) che improvvisamente da oscure si fanno chiare e acquistano possibilità e volontà di espansione».
L’altra citazione ha un significato inequivocabile anche sotto il profilo dello spirito profetico:
«Le nostre sono antitesi integrali, restiamo storici, al di sopra della cronaca, anche senza essere profeti, in quanto lavoriamo per il futuro, per un’altra rivoluzione».
di Antonio Pileggi
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