“Fui l’ultimo a vederlo partire”. Montale e Gobetti
di Rosita Tordi Castria
Scrive Montale dalla prospettiva dell’epilogo: «Continuo a ricordarlo come un Lohengrin isolato, una figura eroica, un leader senza successo, che aveva però le stimmate del genio. Era sempre in movimento, unendo a una straordinaria curiosità intellettuale la convinzione che la vita si spiega solo con la vita e che l’uomo è il solo fabbro del suo destino, perché fra il bene e il male occorre scegliere, non attendere che scatti il terzo elemento, la Sintesi, dalla scatola a sorpresa che gli studiosi rinvengono sempre nei laboratori della storia. Così finì a essere fatalmente un pruno nell’occhio per chi voleva addomesticare le forze politiche italiane, togliendo loro ogni possibilità di fare la “rivoluzione liberale” in cui Piero ha creduto fino in ultimo, anche a costo di dover lasciare l’Italia».
Quando la libertà è in gioco Gobetti segnala il pericolo come un sismografo al più lieve scuotimento della terra, fermo nella convinzione che essa debba essere assunta quale orizzonte strategico di una politica irreversibilmente radicata nell’ethos della legalità e nel primato dell’individuo sul conformismo delle obbedienze.
Non è quindi casuale che colga sul nascere la pericolosità della ‘rivoluzione fascista’: nel febbraio 1922 fonda il periodico “Rivoluzione Liberale” e nell’aprile 1924 pubblica il saggio La rivoluzione liberale in cui traccia un caustico ritratto di Mussolini: «Gli manca il senso squisitamente moderno dell’ironia, non comprende la storia se non per miti, gli sfugge la finezza critica dell’attività creativa che è dote centrale del grande politico. (…)
Tribuno più che statista non sa che specchiarsi nella propria enfasi. La sua eloquenza, la forza del polemista, non sanno battersi sul terreno delle ironie e dei sottintesi, restano smontate appena dal comizio e dalla sala di scherma si passi all’arguta conversazione e alla schermaglia insidiosa delle parole. (…).
Non è facile resistergli perché egli non resta fermo a nessuna coerenza, a nessuna posizione, a nessuna distinzione precisa, ma è sempre pronto a tutti i trasformismi».
Pagherà cara Gobetti la sua opposizione al nascente regime: le violenze inflittegli da chi aveva l’ordine di “rendergli irrespirabile l’aria di Torino”, lo costringeranno nel giro di un anno a lasciare l’Italia.
A nulla gli è valso aver chiuso, dopo soli due anni, un organo politico dichiaratamente antifascista quale “Rivoluzione liberale” e fondare, nel dicembre 1924, un periodico di estetica e critica letteraria, “Il Baretti”, da affiancare alla casa editrice, “Gobetti Editore”, avviata già nel 1923, che nel 1925 accoglie l’esordiente Montale pubblicando Ossi di seppia.
Di fatto l’attenzione all’attualità politica sopravvive nelle pieghe della nuova rivista e ciò non sfugge alla occhiuta vigilanza di regime: le intimidazioni e le percosse non cessano per cui, alla fine del 1925, Gobetti è costretto a lasciare l’Italia.
Fui l’ultimo a vederlo partire, scrive Montale nel 1976: «Quando si decise a partire per la Francia, dove sperava di far l’editore a Parigi, mi ricordo di essere andato apposta a salutarlo alla stazione di Genova. Viaggiava in terza classe; ci siamo anche abbracciati; sono stato l’ultimo amico che ha visto in terra italiana. Di lì a poche settimane sarebbe morto a Parigi».
Era il 16 febbraio 1926. Gobetti aveva solo venticinque anni.
Trepidanti le pagine di Montale il quale già nel 1951, in occasione del cinquantenario della nascita, gli aveva dedicato una penetrante riflessione il cui fermaglio recita: «Cercava nel poeta l’uomo, in questo d’accordo col Gramsci dei Problemi di critica; ma il suo uomo non era un’araba fenice, un’ipotesi, la proiezione nel futuro, o nel passato, di un suo scontento individuale. Era l’uomo d’oggi, il compagno di strada, eguale a noi, migliore di noi, l’uomo che fu cercato invano da una generazione perduta, l’uomo che ci ostiniamo ancora a cercare nella parte più profonda di noi stessi. Ed è perciò che Gobetti, pur senza additarci un sistema o tanto meno un partito, ci pone di fronte uno specchio dal quale ci discostiamo con fastidio o con orrore, a seconda che la dilagante marea della mediocrità politica e intellettuale ci riempia di tedio o di disgusto, di noia o di ribrezzo. Eroe a modo suo, eroe borghese, questo primo della classe è stato uno dei rappresentanti più degni di quel “Risorgimento senza eroi” che continua e continuerà (se l’Italia deve durare) attraverso strade che ancora non conosciamo».
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