Liberalismo tra conservazione e progressismo
Intervista a Luigi Mazzella
D. Il liberalismo è conservazione o progressismo? Vi sono liberali che aggiungono la dizione “conservatori” all’enunciazione del loro orientamento e altri che la integrano con la qualifica di “progressisti”. Non le sembra che un approfondimento sia necessario, soprattutto perché talvolta i termini sono messi in relazione tra di loro in modo molto antitetico, se non addirittura contrapposto?
R. Sì, la confusione terminologica è pericolosa. Comunque non ci troviamo di fronte a veri e propri ossimori logici come cattolico-liberale, liberal-socialista, liberal-nazionalista. Il condizionamento ideologico che caratterizza i cattolici, i socialisti e i nazionalisti è incompatibile con la libertà cui aspirano i liberali; libertà che o è piena o non è! Il discorso è diverso per le dizioni da lei usate.
D. In che senso?
R. La storia e la vita politico-sociale dell’Inghilterra dimostrano che un Paese può essere conservatore e progressista allo stesso tempo, senza alcuna contraddizione né logica né operativa. Può esaltare, da un lato il valore delle tradizioni e aprirsi al nuovo, dall’altro, senza riserve e condizionamenti di alcun tipo.
D. Ma la tendenza naturale, per così dire, dominante di un liberale è quella di essere conservatore o progressista? Oppure, come sottolineava Benedetto Croce che “la libertà si garantisce e si salva talora anche con provvedimenti conservatori, come talaltra con provvedimenti arditi e persino audaci di progresso”?
R. Anche per me, il problema deve porsi sempre con riferimento al nocciolo del liberalismo: la libertà dell’individuo e il benessere cui egli naturalmente tende. Non si può dire, in astratto, se un liberale debba essere progressista o conservatore. Dipende dalle circostanze in cui si trovi a vivere e a operare.
D. Può fare degli esempi?
R. Certo. Al tramonto del feudalesimo era progressista l’uomo amante della libertà che coglieva le potenzialità per lo sviluppo umano della scoperta della macchina a vapore e puntava alla creazione di una società industriale in luogo o in aggiunta di quella agricola. Era conservatore chi difendeva, a oltranza, il mito bucolico della produzione dei campi e si opponeva alle macchine, limitando lo sviluppo della vita sociale e impedendo le potenzialità di espansione degli individui. Un liberale, a mio giudizio, non poteva, all’epoca, che essere prevalentemente progressista; con un minimo di attenzione, cioè, solo al rispetto di certe tradizioni.
D. In altre parole, lei ritiene caratteristica di ogni vero e autentico liberale la sua tendenza a cogliere “il nuovo” nella società in cui vive.
R. E soprattutto la sua capacità di prevedere quali quadri politici garantiranno la massima estrinsecazione della sua libertà.
D. Possiamo dire, in via generale, che un liberale è più incline al progressismo che alla conservazione?
R. Dipende. Se i progressisti si adoprano attivamente per favorire la parte di umanità (quella più prossima, non l’ecumene) nello sfruttare le possibilità che l’evoluzione globale e complessiva del Pianeta offre, è chiaro che per un liberale ciò significa assestare l’individuo su posizioni di maggiore libertà, anche al fine di una maggiore produttività economica, di un più diffuso benessere e di più avanzati modi di convivenza civile e sociale.
D. E…oggi? Chi può definirsi liberale progressista e chi liberale conservatore?
R. Se il sistema industriale della tradizione manifatturiera è alle corde, a causa dell’impossibilità di essere competitivo con prodotti a basso costo di Paesi emergenti (Cina, India e altri), è progressista chi invoca il passaggio dalla logica degli opifici a quella della produzione di beni immateriali favoriti dall’elettronica, dal digitale e dall’elaborazione delle idee oltre che di beni di grande eccellenza, resi possibili dall’high tech e di servizi efficienti e progrediti per la collettività. E’ conservatore chi intende mantenere a ogni costo in piedi il sistema industriale con prodotti di ordinaria manifattura al fine dichiarato di non perdere la “pace sociale” (raggiunta con gli alti costi della mano d’opera e del Welfare realizzato).
D. Quando ritiene che un liberale debba essere, almeno prevalentemente, conservatore?
R. Oggi. Dev’esserlo, sotto un particolare profilo. Si va diffondendo il tentativo dei vertici finanziari del globo di spogliare gli uomini politici eletti dalle masse dei cittadini del potere di governo dei Paesi. Sulle orme degli studi di Huntington, la City e Wall Street hanno scoperto che lo sviluppo capitalistico può essere favorito anche (e, forse, più) dai regimi autoritari oltre che da quelli democratici (come ritenevano, una volta, Durkheim e Weber). Il report della J.P.Morgan Chase, gli interventi del suo consulente Tony Blair e dell’Esecutivo statunitense di Barack Obama negli affari interni italiani, al fine di sostenere l’autoritarismo di Matteo Renzi (profuso oltre che nei suoi metodi di governo nel suo progetto di riforma costituzionale) dimostrano che i liberali oggi non possono che essere conservatori dello status quo, per garantire la non ingerenza diretta dei poteri economici nell’attività politica. Questo è il “nuovo” che va fermato.
D. Lei sostiene, in altre parole, che lo sviluppo del capitalismo non può andare a scapito della libertà dell’individuo.
R. Il liberale dev’essere sempre vigile perché i vertici finanziari dell’economia mondiale non s’infiltrino negli establishment delle maggiori potenze mondiali per condizionarli, né favoriscano governi autoritari in Paesi di minore peso, considerati a guisa di colonie!!
D. In buona sostanza, a suo parere, un liberale può essere conservatore o progressista, secondo le circostanze…e, nel contempo, una sentinella della libertà
R. Sì! Deve seguire la sua bussola che dev’essere sempre orientata in direzione della libertà. Deve, cioè, favorire il progresso se esso conduce a un possibile incremento delle sue potenzialità individuali; lottare per la conservazione, se la libertà è messa rischio da ventate di autoritarismo che s’ammantano di novità.
D. In definitiva, lei afferma che i rapporti con il capitalismo sono ambivalenti?
R. Possono essere ambivalenti ma, al tempo stesso, molto chiari.
D. In che senso?
R. Il capitalismo è inarrestabile per effetto dell’ordinamento patriarcale della società. Finché al paterfamilias si consente l’alibi di nascondere la sua avidità proprietaria sotto l’usbergo del “non sibi sed suis” ogni tentativo di limitare l’incremento della ricchezza è destinato a fallire; anche perché il denaro aiuta la scienza, la ricerca e favorisce il sogno dell’essere umano di divenire immortale. lI limite della crescita del capitalismo, per un liberale, è la libertà dell’individuo, che a nessun costo dev’essere messa a rischio o compromessa.
D. Quali sono le insidie per un liberale?
R. Le incrostazioni corporative e statolatriche: entrambe, a mio giudizio, rappresentano un pericolo per la libertà dell’individuo.
(*) Intervista di Antonio Pileggi, presidente dell’Associazione Culturale “Liberalismo Gobettiano”
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