Incontro / confronto del regista teatrale Luigi Squarzina con il saggista-scrittore Giacomo Debenedetti, nei primi anni Sessanta, sulla riduzione e messinscena del dramma di Jean Paul Sartre “Le Diable et le Bon Dieu”
Nel 1962, nominato direttore artistico, a fianco di Ivo Chiesa, del Teatro Stabile di Genova, Luigi Squarzina decide di aprire la stagione con il dramma di Jean Paul Sartre Le Diable et le Bon Dieu, pubblicato nel 1951 nelle Edizioni Gallimard e rappresentato a Parigi il 7 giugno di quello stesso anno al Theatre Antoine, interpreti Pierre Brasseur e Jean Vilar con la regia di Louis Jouvet.
Se il soggetto del dramma riguarda una realtà storica lontana, la lotta nella Germania del Cinquecento tra le forze protestanti e cattoliche alla vigilia della rivolta dei contadini del 1524 – 1526, lo sguardo implacabile dell’autore nel portare all’evidenza il cinismo che regola i rapporti sociali in un’ansia consumistica che stritola i poveri a tutto vantaggio di una borghesia sensibile soltanto al richiamo del denaro, fa sì che il testo conservi ancora oggi una stringente attualità, testimoniando al contempo l’urgenza di contrapporre la forza rivoluzionaria e lo sguardo critico del teatro alla follia di una società che continua a fare guerre, che dimentica il senso di comunità a vantaggio di un individualismo galoppante, che annega in un’orgia mediatica perdendo il senso della realtà.
Non v’è dubbio che la messinscena del dramma di Sartre in Italia, in una situazione culturale asfittica rispetto a quella francese, essendo la censura ancora molto vigile nonostante la caduta, nel 21 aprile 1962, del divieto preventivo per spettacoli di lirica e di prosa, rischi di provocare attacchi moralistici e politici, con il probabile divieto di repliche.
Squarzina ne è pienamente consapevole quindi si adopera per allestire una piattaforma artisticamente ineccepibile sotto ogni aspetto, dalla scelta del traduttore a quella degli attori.
Per la traduzione, nodo nevralgico in partenza, ha l’opportunità di avvalersi del saggista/scrittore Giacomo Debenedetti di cui, avendo messo in scena nell’ottobre 1961 nel Teatro Stabile di Genova, in qualità di regista indipendente, il dramma Ciascuno a suo modo di Luigi Pirandello, è andato ad ascoltare le lezioni che sta svolgendo, nell’Università di Roma La Sapienza, sul romanzo Si gira. Quaderni di Serafino Gubbio operatore, dal quale Ciascuno a suo modo deriva.
È l’avvio di un’amicizia destinata a non interrompersi anche per il comune interesse a Jean Paul Sartre, di cui Debenedetti ha pubblicato alcuni testi per Il Saggiatore e al quale deve la traduzione del suo 16 ottobre 1943 per il fascicolo 1947 della prestigiosa rivista “Les Temps Modernes”.
Irrinunciabile per Squarzina proporre a Debenedetti la traduzione del dramma di Sartre Le Diable et le Bon Dieu:
Il dono intrinsecamente teatrale che possedeva Debenedetti non poteva rivelarsi meglio che nell’affrontare un’opera non di poesia e trovarvi dentro il nocciolo che resiste alla concettualizzazione e può farsi passione, corpo, spettacolo.[1]
A distanza di quarant’anni gli piace rievocare le giornate trascorse con lui a Viareggio nell’estate 1962 nelle quali al centro della conversazione è la riduzione e l’allestimento scenico del dramma di Sartre:
In quella stanza d’albergo con una grande finestra sul viale la mia fiducia si confermava nel vederlo alle prese con i dilemmi speculativi che la grande letteratura da lui amata metaforizzava fino ad esorcizzarli, e che Sartre riproponeva con il suo stile aggressivo, a volte dottrinale e dimostrativo, eppure ‘impetuoso e colorito’ […].
Sotto i tasti della Olivetti di Giacomino, la pur autorevole goffaggine di certe zone del testo, aggravata nella precedente traduzione, acquistava in eleganza.
La polpa si staccava dall’osso.[2]
Per la scelta dell’attore protagonista, Squarzina sa di poter contare in uno straordinario Alberto Lionello, capace di rendere al meglio l’efficacia provocatoria del linguaggio scenico:
Ma l’attore ha bisogno di trampolini per spiccare il salto. […].
Sartre, nell’italiano di Debenedetti, lo aiutò in modo decisivo a mettere a fuoco e affinare la sua qualità più originale e attuale, che lo distaccava dagli altri attori: la capacità di recitare la contraddizione e di recitarla in tutte le sfumature.
Sono sicuro che ciò gli sarebbe stato difficile senza quella traduzione, che gli permetteva di percorrere il selciato di Il Diavolo e il Buon Dio come su un monopattino, attizzando le sue straordinarie doti nel comico, nel tragico e nel grottesco, così come stimolava il lavoro del regista.[3]
Se la scrittura ridondante e le dimensioni eccessive del testo francese rendono indispensabili numerosi e radicali tagli, variamente disseminati, non viene mai meno la consapevolezza e del traduttore e del regista che l’obiettivo di far acquistare al testo scioltezza, velocità, ritmo, deve essere perseguito senza nulla perdere del pensiero dell’autore, incentrato sul rigoroso divieto a vie di fuga nel trascendente.
La negazione sartriana degli assoluti, sia in ambito ideologico che morale, religioso e politico, trova di fatto sostanziale condivisione sia in Debenedetti che in Squarzina i quali avvertono entrambi l’esigenza di una società senza classi in cui l’individuo agisca in funzione di una comunità di esseri umani liberi e uguali, capaci di stringere tra loro legami di solidarietà, consapevoli di vivere sotto un cielo vuoto.
È senza alcun dubbio piuttosto inconsueta nella storia del teatro una totale intesa tra l’ autore del dramma, un grande intellettuale, filosofo e saggista del livello di Jean Paul Sartre, il traduttore, un geniale critico letterario e scrittore quale Giacomo Debenedetti e l’insigne regista, Luigi Squarzina al quale spetta il merito di aver reso possibile l’incontro di tre presenze importanti nella cultura europea del secondo dopoguerra in vista della riduzione di Le Diable et le Bon Dieu per la rappresentazione nel Teatro Stabile di Genova dell’otto dicembre 1962.
Nella riduzione, esito di una stretta collaborazione tra il regista e il traduttore, è rispettata la originaria scansione in Tre Atti e Undici Quadri ma è abolita la suddivisione in scene, sostituita da puntuali didascalie, e risultano stemperate le asprezze lessicali, a vantaggio di un alleggerimento della tensione tematica.[4]
In apertura l’Arcivescovo di Magonza e il suo banchiere dialogano con Goetz, lo spietatissimo capitano di ventura al quale hanno commissionato l’assedio della città di Worms entro le cui mura si sono ammassati i rivoltosi: i ricchi borghesi, che intendono sottrarre i loro affari ai vincoli feudali giudicati eccessivi, un gruppo di ecclesiastici, il prete Heinrich, sempre schierato accanto ai più poveri, e il popolo minuto, privo di tutto, guidato dall’astuto Nasty.
Nel Terzo Quadro del Primo Atto, Goetz non esita a confessare che il Male è la sua ragione di vivere:
Dio mi ascolta, io gli rompo i timpani e non chiedo altro, perché è il solo nemico degno di me. C’è Dio, ci sono io e ci sono i fantasmi. Questa notte crocifiggo Dio, in te e in ventimila uomini, perché la sua sofferenza infinita rende infinito chi lo fa soffrire. La città andrà a fuoco, Lui lo sa. In questo momento ha paura, lo sento; mi sento il suo sguardo sulle mani, il suo fiato nei capelli, i suoi angeli piangono. Sta dicendosi: “Forse Goetz non avrà il coraggio”. Proprio come se fosse un uomo. Piangete angeli, piangete: avrò quel coraggio. Andrà a fuoco.[5]
Un imprevedibile ribaltamento si verifica in chiusura del Primo Atto quando Goetz decide di scommettere ai dadi che, se perderà, farà il Bene assoluto. Sconfitto, abbandona infatti senza esitazioni le armi e indossa il saio da frate diventando il paladino dei contadini:
È l’alba. Com’è fredda. L’alba e il Bene sono entrati sotto la mia tenda e non ci ha messi di buon umore: lei singhiozza, lui mi odia: pare di essere all’indomani di una catastrofe… D’altronde non m’importa: non devo giudicarlo, il Bene, devo farlo. Addio.[6]
Il dramma si chiude con la presa d’atto da parte di Goetz che, essendo il Bene e il Male inseparabili e talvolta il primo più disastroso del secondo, può tranquillamente decidere di tornare a indossare le armi:
Avevo già tradito tutti, compreso mio fratello, ma la mia fame di tradimento non era paga: allora una notte, sotto i bastioni di Worms, ho avuto l’idea di tradire il Male. Così è andata. Ma il Male non si fa tradire tanto facilmente: dal bussolotto dei dadi non è uscito il Bene, è uscito un Male peggiore.[7]
È il passaggio centrale di un fitto dialogo di Goetz con il curato Heinrich, il difensore dei poveri, il quale gli ricorda come, lanciando i dadi, abbia barato al fine di perdere la scommessa.
Recita la replica di Goetz:
Supplicavo, invocavo un segno, mandavo messaggi al cielo: nessuna risposta. Il cielo non sa neppure il mio nome. Non passava minuto senza che io mi chiedessi che cosa potevo “essere“ agli occhi di Dio: Ora so la risposta: nulla. Dio non mi vede, Dio non mi sente, Dio non mi conosce. Vedi quel vuoto sulle nostre teste? È Dio. Vedi quella breccia sulla porta? È Dio. Quel buco sulla terra? È Dio. Il silenzio è Dio. L’assenza è Dio. Dio è la solitudine degli uomini. Non c’ero che io: solo a decidere il Male, solo a inventare il Bene. Io ho barato, io ho fatto miracoli, sono io oggi ad accusarmi, io solo a potermi assolvere; io, l’uomo. Se Dio esiste, l’uomo è nulla; se l’uomo esiste…Dove scappi?[8]
È di tutta evidenza, dai ‘campioni’ proposti, che la preoccupazione e del traduttore e del regista è di osservare la massima aderenza al testo francese con l’accortezza, nelle frequenti occasioni in cui sono operati tagli più o meno radicali, di provvedere a saldature che simulino continuità e compattezza in modo che la riduzione per la scena si configuri come un testo letterario a sé, che non perde efficacia e persuasività anche se destinato alla sola lettura.
Rosita Tordi Castria
[1] Luigi Squarzina, Giacomo Debenedetti e il teatro in “Nuovi Argomenti”, luglio-settembre 2001, pp. 251-266
[2] Ivi
[3] Ivi.
[4] Fedele D’Amico, promuovendo la Enciclopedia dello Spettacolo, affida nel 1952 la sezione Teatro drammatico a Luigi Squarzina, allora giovane regista – autore emergente. La traduzione/riduzione di Le Diable et le Bon Dieu sarà pubblicata nel 1963 nel fascicolo n° 316 della rivista Il Dramma
[5] La traduzione rispetta alla lettera il testo francese:
Dieu m’entend, c’est à Dieu que je casse les oreilles et ça me suffit, car c’est le seul ennemi qui soit digne de moi. Il y a Dieu, moi et les fantômes. C’est Dieu que je crucifierai cette nuit, sur toi et sur vingt mille hommes parce que sa souffrence est infinie et qu’elle rend infini celui qui le fait souffrire. Cette ville va flamber. Dieu le sait. En ce moment il a peur, je le sens; je sens son regard sur mes mains, je sens son souffre sur mes cheveux, ses anges pleurent. Il se dit «Goetz n’osera peut-être pas» – tout comme s’il n’était qu’un homme. Pleurez, pleurez les anges: j’oserai. Tout à l’heure, je marcherai dans sa peur et dans sa colère. Elle flambera: l’âme du Seigneur est une galerie de glaces, le feu s’y reflétera dans des millions de miroirs. Alors, je saurai que je suis un mostre tout à fait pur”.
[6] La traduzione non registra varianti rispetto al testo francese:
Voici l’aube. Comme elle est froide. L’aube et le Bien sont entrés sous ma tente et nous ne sommes pas plus gais: celle-ci sanglote, celui-ci me hait: on se croirait au lendemain d’une catastrophe. Peut-être que le Bien est désespérant … Peu m’import, d’ailleurs, je n’ai pas à le juger, mais à le faire. Adieu.
[7] La traduzione è fedele al testo francese:
J’avais trahi tout le monde et mon frère, mais mon appétit de trahison n’était pas assouvi: alors une nuit, sous les remparts de Worms, j’ai inventé de trahir le Mal, c’est toute l’histoire. Seulement le Mal ne se laisse pas si facilement trahir: ce n’est pas le Bien qui est sorti du cornet à dés: c’est un Mal pire. [7]
[8] Anche in questo caso la traduzione rispetta alla lettera il testo francese:
Je suppliais, je quémandais un signe, j’envoyais au Ciel des messages: pas de réponse. Le Ciel ignore jusqu’à mon nom. Je ne demandais à chaque minute ce que je pouvais être aux yeux de Dieu. A présent je connais la réponse: rien. Dieu ne me vois pas, Dieu ne m’entend pas. Dieu ne me connait pas. Tu vois ce vide au dessus de nos têtes? C’est Dieu. Tu vois ce trou dans la terre? C’est Dieu encore. Le silence c’est Dieu. L’absence, c’est Dieu. Dieu c’est la solitude des hommes. Il n’y avait que moi: j’ai décidé seul du Mal; j’ai inventé le Bien. C’est moi qui ai triché, moi qui ai fait des miracles, c’est moi qui m’accuse aujourd’hui, moi qui peux m’absoudre; moi l’homme. Si Dieu existe, l’homme est néant; si l’homme existe… Où cours-tu?