IL TERZO OCCHIO

Studi su Giorgio de Chirico, Alberto Savinio e Italo Calvino

di Rosita Tordi

Presentazione

Se, come vuole Jorge Luis Borges, sono spesso gli artisti più vicini nel tempo a costituire il punto di partenza della nostra comprensione delle opere di artisti precedenti, senza che questi siano stati necessariamente dei loro precursori, non sorprenda che Italo Calvino, con la sua idea della città come habitat del pensiero, ci abbia suggerito il possibile ancoraggio per una esplorazione che  da tempo ‘insegue’ Giorgio de Chirico e suo fratello Andrea, nome d’arte Alberto Savinio.

Della riscoperta di quest’ultimo, nei primi anni Settanta, indiscutibile merito va riconosciuto alla casa editrice Einaudi. [1]

È del 1973 la ristampa, nella collana “I Coralli”, del racconto Infanzia di Nivasio Dolcemare, affresco smagliante di un’Atene solare e irrimediabilmente perduta. Dell’anno successivo, nella collana “Einaudi letteratura” e con una nota di Gian Carlo Roscioni, è la ristampa di Hermaphrodito, il volume che si apre con il poema drammatico degli esordi di Savinio a Parigi nel circolo di Apollinaire, Les Chants de la mi-mort, e accoglie racconti della seconda metà degli anni Dieci, in parte già pubblicati nella rivista fiorentina “La Voce”.[2]

Del 1977, sempre per i tipi Einaudi, è la raccolta di scritti musicali, Scatola sonora, e del 1978 il romanzo Tragedia dell’infanzia, con una nota di redazione, in quarta di copertina, che recita:

Alla ristampa di “Infanzia di Nivasio Dolcemare” che ha dato inizio all’attuale riscoperta di Savinio (Einaudi 1973), ecco seguire quella di “Tragedia dell’Infanzia”. I due racconti sono infatti momenti di un medesimo discorso, centrato su un tema tra i più intimamente legati alla poetica di Savinio. Alla poetica prima ancora che alla narrativa, perché nell’ambito della letteratura di memoria l’opera di Savinio occupa un posto a sé, la cui peculiarità, dall’autore stesso sottolineata con puntigliosa lucidità, risiede soprattutto in una originalissima riflessione sulla natura creativa e “rivoluzionaria” dell’infanzia.

Più che protostoria dell’individuo, l’infanzia è in questo libro il tempo privilegiato dell’esperienza e della conoscenza: un’esperienza e una conoscenza che, proprio perché immediate e autentiche, solo per intermittenti, luminosi istanti, significano felicità, e assai più spesso sono invece dolore, “tragedia”.(…).

Lo sfondo della vicenda o, piuttosto, il quadro delle emozioni è quello, infinitamente suggestivo, che ha come protagonista Nivasio Dolcemare: una variopinta “belle époque” balcanica, una Grecia cosmopolita su cui indugiano le ombre degli antichi dèi, anch’essi in qualche modo levantinizzati dalla predilezione di Savinio per la stagione alessandrina, ironica ed esoterizzante, della civiltà ellenica. Realtà o invenzione? Pertinente è solo parlare di trasfigurazione e di sogno che, dilatando i “nitidi ricordi” e le “reminiscenze vaghe”, allestiscono scenari e storie più veri del vero.[3]

Al di là della questione se, in qualità di consulente editoriale della casa editrice torinese, Calvino si sia speso o meno per la pubblicazione di questi scritti, è in ogni caso ipotizzabile un suo avvicinamento a Savinio già tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, probabilmente per la mediazione di Elio Vittorini.

Nel complicato percorso di messa a punto di una scrittura trasgressiva nei confronti del realismo deve essergli sembrato senz’altro sovvenevole uno scrittore che fa dell’immagine, come luogo di condensazione simbolica delle proiezioni di una mente assolutamente libera, l’elemento fondativo del fare artistico.

Si direbbe che la stessa insistente evocazione saviniana di una «Grecia cosmopolita su cui indugiano le ombre degli antichi dèi», sia all’origine dello scritto calvinano del 1975, Gli dèi nella città, il cui explicit recita:

Gli antichi rappresentavano lo spirito della città, con quel tanto di vaghezza e quel tanto di precisione che l’operazione comporta, evocando i nomi degli dèi che avevano presieduto alla sua fondazione: nomi che equivalevano a personificazioni d’attitudini vitali del comportamento umano e dovevano garantire la vocazione profonda della città, oppure personificazioni d’elementi ambientali, un corso d’acqua, una struttura del suolo, un tipo di vegetazione, che dovevano garantire della sua persistenza come immagine attraverso tutte le trasformazioni successive, come forma estetica ma anche come emblema di società ideale. Una città può passare attraverso catastrofi e medioevi, vedere stirpi diverse succedersi nelle sue case, veder cambiare le sue case pietra per pietra, ma deve, al momento giusto, sotto forme diverse ritrovare i suoi dèi.[4]

Nel 1984, invitato dall’Università di Harvard a tenere le Charles Eliot Norton Poetry Lectures, nel testo preparatorio Calvino confessa:

Il mio lavoro di scrittore è stato teso fin dagli inizi a inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani nello spazio e nel tempo. (…). Ma c’è un’altra definizione in cui mi riconosco pienamente ed è l’immaginazione come repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere.[5]

Indubbie le consonanze con Savinio nella cui riflessione torna insistente una immagine che fanciullo lo affascinava e al contempo lo intimoriva nelle sue passeggiate con il fratello Giorgio per le vie di Atene: l’occhio racchiuso in un triangolo nelle facciate dei templi.

Quell’immagine, con esplicita allusione al “terzo occhio”, che a detta degli Stoici l’uomo porta al sommo del cervello, sarà assunta da Savinio quale emblema di una concezione dell’arte come lucida operazione della mente: «Le opere mie nascono prima di tutto come cose pensate: portarle a una forma dipinta o scritta è una traduzione, un’operazione secondaria, un’operazione ‘a scelta’».[6]

E in Epilogo, lo scritto conclusivo del volume del 1918 Hermaphrodito, alla domanda retorica, “Le opere maggiori non sono forse tutte viaggi?”, fa seguire la confessione: «Io propendo però per i viaggi immaginari – quelli che non implicano trasferimenti organici. Mi pongo dalla parte della Commedia e non da quella dell’Odissea».[7]

A questa scelta iniziale Savinio conforma con assoluta coerenza tutto il successivo percorso creativo e di riflessione sull’arte.

Viaggio mentale recita il titolo di uno dei racconti sulla sua infanzia in Grecia pubblicati tra il 949 e il 1952 sul “Corriere della sera” e il “Corriere d’Informazione”.

E’ la sua ultima stagione artistica e umana, vissuta nella abitazione romana di Via Bruno Buozzi, e quei racconti, accolti nel volume Il signor Dido, pubblicato postumo nelle edizioni milanesi Scheiwiller del 1959, sono stati riediti nel 1979, per i tipi di Adelphi, con una Nota dell’editore in cui si dà conto della successione cronologica in cui sono stati scritti: «Di questi l’ultimo è Viaggio mentale; sul dattiloscritto infatti Savinio scrisse di suo pugno la data: ”Secondo del marzo 1952 – spedito il 2 maggio 1952”; esso uscì sul “Corriere” dopo la sua morte, avvenuta il 6 maggio di quell’anno».

Si direbbe che Savinio, non certo presago della fine imminente, ma in ogni caso giunto ormai a una fase avanzata del proprio percorso artistico, abbia consapevolmente scelto per quel racconto un titolo-emblema del suo fare artistico: l’arte come avventura della mente.

Nella stessa direzione il lemma Vita di Nuova enciclopedia in cui, a proposito di Nivasio, uno dei suoi personaggi ‘emissari’, si legge:

Credeva di essere un uomo solo e invece è ‘due uomini’: uno se ne va e l’altro rimane. E sente che un giorno, forse prossimo, uno dei due arrivato alla fine delle forze si coricherà a terra e rimarrà, e l’altro che è il solo che lo interessa, il solo che lui ‘conosce’, continuerà il suo libero e forte camminare. E allora potrà dare libero sfogo veramente alla sua voglia di camminare sui muri ma sopra i monti ancora e dentro la terra, nel cielo e fra le stelle e potrà dar corso finalmente a questo bisogno di grande libertà che gli urge dentro e d’infinito amore, che altre parentele, altre amicizie, altri amori gli si apriranno: tutte le parentele, tutte le amicizie, tutti gli amori di questo e degli altri tempi, di questo e degli altri mondi.[8]

È una sorta di manifesto di una scrittura il cui obiettivo è la creazione di un paesaggio dell’artificio in cui si profila un nuovo stadio antropologico, oltre le frontiere dell’individuo umanistico, dell’io millenario: la virtualità sostituisce la realtà in un processo che cambia i sentimenti, le percezioni dell’individuo e quindi la sua natura, la sua storia e i modi di raccontarla.

Savinio ha la percezione lucida che il nostro patrimonio di conoscenze tecnico/scientifiche, con il conseguente passaggio del controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente, è destinato a farci superare una soglia critica che non ha paragone con alcun’altra: una società in cui l’umano sarà completamente staccato dalla naturalità della specie.

Emblematici in questa direzione sia il testo degli esordi parigini del 1914, Les Chants de la mi mort, in cui si assiste alla paradossale nascita di un uomo senza volto, sia il dramma per musica del 1950, L’Orfeo vedovo, esilarante divertissement intorno a una fantasmatica tecnica capace di infondere nuova vita ai cadaveri: non è più in scena il ‘morto che si guarda morto’ o una regressione al periodo prenatale, quale si configura nel racconto Nel fondo del mare, che chiude il volume del 1937 Tragedia dell’infanzia, ma un “sentimento novissimo e felice: la morte avvenuta e superata».

A distanza di un anno la inaggirabile presenza della morte nel corso della vita torna, personificata in una bella fanciulla, nella tragicommedia mimata e danzata, La vita dell’uomo, andata in scena il 14 giugno 1951 nel Teatro alla Scala con le coreografie di Margherita Wallmann.[9]

Nell’ultima scena il protagonista, ormai un vecchio uomo, si accorge che la fanciulla con cui sta danzando è la morte:

Terrore.

La Morte dice parole dolci e suadenti. Si faranno compagnia.

(…)

Il Vecchio e la Morte s’incamminano.

Si fondono in un personaggio solo.

Scende dal cielo la sagoma della Madre.

L’Uomo traversa la gonna-frangia: rientra nel grembo della Madre.

Tace l’orchestra.

Il pianoforte ripete, leggermente variata, l’introduzione schumanniana, e, questa volta, si adagia sulla tonica.

Ottavino e contrabbasso conchiudono: questo su un Sol basso, quello su un Sol acuto.

Così l’Uomo nacque, visse, morì.

Perché?

 Nella totale assenza di senso l’arte si configura come l’unica via ‘salvifica’. In questa direzione, nel IV° fascicolo 1948 della rivista “Domus”, piace a Savinio sottolineare il privilegio del suo esser nato all’ombra del Partenone:

Torna la dea nel suo tempio è l’immagine che meno mi ha tradito. (…). Il ricordo è passato quasi intero nel segno, quasi inalterato. Ricordo della mia infanzia. Ricordo di estive notti attiche. Algido chiarore della luna sul cielo e sul mare (…). Nei luoghi più colmi di anima, ogni cosa è profondamente “locale”: uomini, piante, minerali, soprattutto gli dei, anima stessa del luogo. Santa Europa! L’Europa esprime gli dei dal proprio seno. (…). Gli dei dell’Europa (…) escono dal seno della terra, come i minerali e come le piante: sono terrestri come gli animali e come l’uomo.

Da questa angolazione si configura percorribile una linea interpretativa che avvicini Italo Calvino a Alberto Savinio e a Giorgio de Chirico: tre artisti dalla vocazione eminentemente urbana che amano aggirarsi in un circuito spazio-temporale in cui, nell’intreccio delle corrispondenze, degli echi, affiorano, con pari evidenza, figure del mito classico e luoghi del vissuto personale.


NOTE

[1] Sulla vicinanza tra i due fratelli de Chirico nella fase iniziale del loro percorso artistico cfr.: P. Baldacci, De Chirico e Savinio, la parabola di una fratellanza intellettuale, (versione originale italiana del saggio introduttivo al catalogo della mostra Die andere Moderne. De Chirico und Savinio, Dűsseldorf 15 sett. – 10 dic. 2001, Monaco 15 dic. – 10 mar. 2002), in Alberto Savinio, a cura di P. Vivarelli e P. Baldacci, Milano, Fondazione Antonio Mazzotta, 2002, pp. 55 – 76.

E inoltre cfr. Gerd Roos, Giorgio de Chirico e Alberto Savinio. Ricordi e documenti, 1906-1911, Bologna, Ed. Bora, 1999 e Giorgio de Chirico Alberto Savinio. Colloquio, a cura di L. Cavadini e S. Pegoraro, Milano, Silvana Editoriale, 2007.

Confessa Savinio nella Prefazione al volume del 1943 Casa “La Vita” (Milano, Adelphi, 1988, p.15): «È là che io e mio fratello ci ritroveremo quali eravamo vent’anni or sono, quando nulla ci divideva, e in due avevamo un solo pensiero».

[2] Può essere utile ripercorrere la quarta di copertina: «Si è parlato spesso in questi anni del contributo che Alberto Savinio ha dato all’arte e alla poetica del nostro secolo (citazione d’obbligo, il riconoscimento tributatogli da Breton nell’Antologia dello Humour nero, pubblicata in questa stessa collana): ma l’esatta natura e la genesi del suo surrealismo o presurrealismo sono rimaste nell’ombra, forse perché la poliedricità della figura di Savinio e la vastità della sua opera letteraria, parzialmente dispersa in riviste, giornali e plaquettes di difficile reperimento hanno ostacolato una conoscenza non mediata dell’artista e della sua attività. Un vero accostamento a Savinio non può quindi cominciare che da una rilettura dei suoi testi meno vulgati, che sono spesso i più ricchi di qualità e di sorprese. È questo certamente il caso di Hermaphrodito, il suo primo libro che, pubblicato nel 1918 e non più ristampato nella sua integrità, contiene già in sé quasi tutta l’impalcatura e la suppellettile del cosmo letterario saviniano: dalla problematica “metafisica” al lessico “moltilingue” e tendenzialmente anfibologico, dal tema del “vuoto” alla tensione fantastica e grottesca dei racconti più tardi e famosi».

[3] Può essere indizio non del tutto trascurabile che il romanzo di Savinio Tragedia dell’infanzia, pubblicato da Einaudi nel 1978, sia apparso l’anno prima in traduzione francese nelle edizioni Gallimard. Altri scritti di Savinio in edizioni francesi negli anni Sessanta / Settanta:

1965, Vie de fantômes, Paris, Flammarion, Coll. L’Age d’or ;

1975, Toute la vie, Paris, Gallimard ;

1977, Maupassant et l’autre ; Tragédie de l’enfance ; C’est à toi que je parle, Clio, Paris, Gallimard;

1978, Hommes, racontez-vous, Paris, Gallimard ;

1979, Achille énamouré, Paris, Gallimard.

[4] I. Calvino, Gli dèi della città in Una pietra sopra, Saggi a c. di M. Barenghi, I Meridiani, op, cit., p. 350. Il saggio era stato pubblicato la prima volta in “Nuova società”, n° 67, 1975, pp. 36-37, con il titolo Deve ritrovare i suoi dei; poi nel volume Com’è bella la città, Editrice Stampatori, Torino, 1977, pp. 69-74.

[5] I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Mondadori, 1995, p. 706.

[6] A. Savinio, La mia pittura in Alberto Savinio, a cura di O. Vergani, Milano, 1949. Già in Autopresentazione in Bollettino della Galleria milanese “Il Milione”, n° 66, 15 aprile-1° maggio 1940.

[7] A. Savinio, Hermaphrodito e altri romanzi, op. cit., p.161

[8] A. Savinio, Vita in Nuova Enciclopedia, op. cit.

[9] Il titolo è ripreso dal dramma del russo Leonida Andreev, pubblicato nel 1912 in traduzione italiana e successivamente apparso, a cura di un traduttore anonimo, nel fascicolo n° 2 del 1924 di “Comoedia”.

Rosita Tordi Castria