Il partito dello Stato forte e la battaglia su Keynes
di Vadim Bottoni
La battaglia su Keynes è politicamente importante.
Si ritenga importante tatticamente, strategicamente, dialetticamente o che si condivida integralmente, il pensiero keynesiano ben interpretato fornisce uno strumento utilissimo per chi crede nella centralità dello Stato nell’economia. D’altronde basta pensare a quante volte vengono tirate in ballo le politiche keynesiane come risposta alla crisi, come naturali implementazioni della parte economica della Costituzione, come aspetti costitutivi delle moderne economie monetarie, e così via.
Se questo dà la misura della sua importanza, un altro aspetto dà la misura della fragilità del richiamo al pensiero keyenesiano: il fatto è che Keynes risulta tanto nominato quanto poco letto e questo vale sia per i sostenitori che per i detrattori. Questa fragilità presta il fianco a due tipi di attacchi da parte del mainstream liberista: o il loro qualificarsi come veri keynesiani mentre in realtà ne stravolgono il pensiero, o identificare chi crede nello Stato interventista come falsi keynesiani statalisti, i keynesiani de’ noantri, il cui pensiero non avrebbe non solo nulla a che fare con il (probabilmente) più grande economista del Novecento, ma che per giunta neanche avrebbero letto. Il caso in questione rientra in quest’ultimo tipo di attacchi, che non sono solo pretestuosi e capziosi, ma sono anche perpetrati spesso senza assumersi l’onere della prova, perché se si scrive su testate prestigiose agli occhi del grande pubblico si eredita quel prestigio che consente di esimersi dalla giustificazione delle invettive.
Questo è il caso dell’articolo su “Il partito del debito di Stato” scritto il 4 Agosto dal “liberista” Panebianco sulla prima pagina del Corriere della sera che riporta come occhiello “I finti keynesiani”.
Purtroppo chi crede nella centralità dello Stato nell’economia, che difficilmente potrebbe scrivere nelle prime pagine dei quotidiani nazionali più venduti, ha il compito di assumersi l’onere della prova per far valere le proprie ragioni.
Questo è quello che vorrei fare in questo articolo di risposta, ovviamente nei limiti di un articolo, passando in radiografia i punti salienti dell’attacco liberista e riportando anche qualche rigo preso direttamente nelle pagine scritte da Keynes, che in buona parte troviamo in pamphlet presentati in stile brillante dai quali emergono le intuizioni più profonde che hanno orientato le sue innovazioni teoriche. Certamente abbiamo anche scritti tecnici ma, come afferma il suo più importante biografo Skidelsky, non dobbiamo dimenticare che per Keynes « la ricerca della conoscenza significava filosofia ed economia, e più la prima che la seconda… Negli anni della maturità, Keynes si lamentava spesso del fatto che i giovani economisti non avevano una preparazione adeguata – non potevano contare su una vasta cultura per l’interpretazione dei fatti economici. Ciò può spiegare che cosa non ha funzionato con la teoria economica e, segnatamente, con la rivoluzione keynesiana. Keynes aveva illuminato una strada ai tecnici – ma questi erano rimasti dei tecnici. Usavano i suoi strumenti, ma non riuscivano ad aggiornare la sua visione complessiva».
Procedendo come detto con una “radiografia” dell’articolo del Corriere emergono tre stigmi affibbiati ai cosiddetti neo-statalisti o falsi keynesiani che, per l’editorialista, « a differenza dei keynesiani veri non hanno mai letto un rigo di John Maynard Keynes ». Come accennato Panebianco non scrive egli stesso un solo rigo per qualificare i tratti dei veri keynesiani, lasciando il concetto largamente indefinito e a noi l’onere di dire qualcosa in breve: i “veri keynesiani” sono quelli che hanno compreso la portata rivoluzionaria delle innovazioni teoriche keynesiane, rivoluzionarie nel senso che sgretolano la rappresentazione edificante che il libero operare delle forze di mercato consenta all’economia di auto-stabilizzarsi e quindi di evitare la china della depressione economica e della disoccupazione strutturale.
Da qui emerge la necessità dell’intervento dello Stato nell’economia che non è una semplice “comparsata”, una spinta alla macchina che si è fermata per farla ripartire come prima, così come professato dai falsi keynesiani o meglio definiti keynesiani bastardi dalla brillante Joan Robinson. Infatti per i “veri keynesiani” è un intervento che modifica il motore e istruisce sulla guida: non si riparte più come prima perché il cambiamento è strutturale. Se così non fosse non riusciremmo a comprendere perché Keynes stesso iniziò a parlare di rivoluzione, e non più di semplice cambiamento di opinione, alla vigilia della pubblicazione della sua più importante opera, così come riportato in questo passo di una lettera destinata a George Bernard Shaw nel 1935:
« Per comprendere lo stato della mia mente, tuttavia, devi sapere che ritengo di stare scrivendo un libro di teoria economica che rivoluzionerà ampiamente – non tutto in una volta, suppongo, ma nel corso dei prossimi dieci anni – il modo come il mondo pensa ai problemi economici ».
Tornando all’articolo di Panebianco i tre stigmi dei neostatalisti sono articolazioni del concetto centrale di ogni buon liberista: “i costi”. Nel primo punto ci sono i costi del debito pubblico in termini di interessi, nel secondo punto i costi del debito dati dalla spesa pubblica e dall’ingerenza dello Stato nell’economia, nel terzo punto i costi derivanti dall’impedire l’azione efficiente delle forze di mercato. Passiamoli in rassegna.
Punto 1. Per la parte sui costi del debito pubblico in termini di interessi in apertura dell’articolo di Panebianco troviamo un riferimento di “stretta attualità” che recita così: « Nella Francia assolutista di fine Seicento…le finanze statali erano dissestate…perché i creditori prestavano denaro allo Stato con altissimi tassi d’interesse. La ragione è che non si fidavano».
Il riferimento non solo ad epoche passate, ma precapitalistiche, denota una costante difficoltà del pensiero liberista nel confrontarsi sul terreno specifico delle moderne economie monetarie di produzione, che è il contesto per noi politicamente rilevante e per Keynes teoricamente significativo. Il motivo per cui Keynes si concentra nell’analisi del capitalismo avanzato può essere compresa nelle poche righe che riportiamo dal saggio Sono un liberale? (1925):
« metà della scolastica saggezza della nostra classe dirigente si basa su assunti che un tempo erano veri- o parzialmente veri – , ma che lo sono sempre meno ogni giorno che passa. Dobbiamo inventare una saggezza nuova per una nuova era. E nel frattempo, se vogliamo fare qualcosa di buono, dobbiamo apparire eterodossi, problematici. Pericolosi e disobbedienti agli occhi dei nostri progenitori. In campo economico questo significa innanzitutto che dobbiamo escogitare nuove politiche e nuovi strumenti per adeguare e controllare il funzionamento delle forze economiche, così che non interferiscano in maniera intollerabile con l’idea odierna di cosa sia appropriato e giusto nell’interesse della stabilità e della giustizia sociale».
Chi si muove nel solco del pensiero keynesiano osserverà le moderne economie monetarie di produzione e quindi guarderà al ruolo che dovrebbero ricoprire le Banche Centrali nella politica monetaria: proprio dalla riflessione keynesiana sulla natura monetaria del saggio d’interesse si determina la possibilità delle Banche Centrali, che si muovono di concerto con il Tesoro, di disciplinare il livello dei tassi d’interessi in modo funzionale allo sviluppo dell’economia reale. Quindi tanto il riferimento di Panebianco ad economie precapitalistiche quanto le determinanti dei tassi d’interesse (in contesti privi di Banche Centrali) sono da rimandare al mittente, tanto più nel capitolo finale della Teoria Generale (1936) Keynes evidenzia l’opportunità di comprimere i tassi d’interesse e quindi il rendimento finanziario al fine di realizzare:
« l’eutanasia del redditiero e di conseguenza l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale».
Punto 2. Per la parte sui costi del debito pubblico in termini di spesa pubblica e di ingerenza dello Stato nell’economia vediamo che nell’articolo del Corriere viene puntato il dito sulla « età ormai degenerata del capitalismo di Stato all’italiana, [in cui] i sofisticati discorsi sulla bontà dell’economia mista coprivano clientelismo e lottizzazioni… [I neostatalisti] pensano che sia un progetto esaltante “far fare buche” (a spese dello Stato) e poi farle riempire. Costoro ce l’hanno con il liberismo…puntano il dito contro i “fallimenti del mercato” che, certamente, di tanto in tanto ci sono. Ma glissano sistematicamente sui numerosissimi e gravissimi fallimenti dello Stato. Autostrade torna allo Stato…L’acqua, perbacco, deve essere pubblica [voleva essere ironica]…E che diciamo dell’Alitalia? O dell’Ilva? [Dulcis in fundo] I neostatalisti non ritengono che il debito pubblico e la sua sostenibilità siano un problema [mentre va] a danno delle generazioni successive ».
La nostra critica a questo articolato passaggio la suddividiamo così:
a. evidenziamo un infelice giudizio sui casi concreti di gestione pubblica evocati dall’autore dell’articolo (autostrade, acqua pubblica ecc.);
b. integriamo il discorso con un esempio di “fallimento del mercato” per non consentire di sminuire l’importanza della questione come fa l’autore;
c. avanziamo un motivo per comprendere l’importanza del modello di “economia mista”;
d. portiamo una netta critica alla rappresentazione dei cosiddetti neostatalisti che “va bene lo Stato” anche per scavare e poi riempire delle buche;
e. demistifichiamo il sempreverde concetto di debito pubblico come danno per le generazioni successive.
L’elenco dei casi concreti di gestione pubblica (punto a) dopo le drammatiche evidenze degli ultimi anni conseguenti ai tagli dissennati dei servizi pubblici, pensiamo solo al settore della sanità nella crisi economico-sanitaria, ha l’aria di una recrudescenza della narrazione liberista che cerca disperatamente di uscire dall’angolo facendo finta niente. All’angolo invece va rimandata immediatamente perché:
l’Ilva è stata portata al fallimento da una gestione privata che per mancanza di investimenti ha aggravato il danno ambientale;
l’Alitalia risulta essere stata, dai documenti ufficiali, gestita da cordate di privati in buona parte italiani nel decennio precedente all’amministrazione straordinaria;
le Autostrade, in quanto monopolio naturale privato, sono state per banale logica economica fonte di grandi rendite derivanti dal lievitare delle tariffe, ovvero da rendimenti superiori alle medie di mercato in condizioni di azzeramento del rischio di mercato e di investimenti effettivi ben al di sotto delle previsioni a danno della sicurezza, e la mente qui corre alla drammatica vicenda del Ponte Morandi;
l’Acea è sì per il 51% di proprietà del Comune di Roma, ma anche qui l’acqua pubblica è stata gestita da privati che hanno lucrato sulla differenza tra tariffe idriche imposte e sugli scarsi investimenti su una rete in cui c’è una dispersione di acqua che si aggira sul 40%.
La letteratura scientifica d’altronde è pressoché unanime nel giudizio sull’inefficienza (punto b) del monopolio naturale privato (uno dei diversi fallimenti di mercato), in quanto al costo della tariffa (che avrebbe anche un operatore pubblico) si aggiungerebbe una remunerazione in condizione di protezione dalla concorrenza, quindi in buona parte arbitraria. Se poi pensiamo alla parte degli investimenti che garantiscono le regole di sicurezza, un gestore privato avrebbe un incentivo a tagliare per aumentare la quota di rendimento da intascare, mentre un gestore pubblico non avrebbe alcun interesse a rischiare di non seguire le regole per trovarsi responsabile di un danno, a meno che non vi sia un privato che avrebbe interesse a superare certe regole corrompendo la parte pubblica: ma a questo punto le parti si esporrebbero al rischio di una sanzione o a una pena, mentre la gestione diretta del privato renderebbe più facile raggirare l’ostacolo per raggiungere il medesimo risultato con un rischio inferiore.
In questa parte dell’articolo poi troviamo una critica all’ “economia mista” (punto c) che non solo è un modello iscritto nella parte economica della nostra Costituzione (di stampo appunto keynesiano), ma è quel modello che (seppur applicato parzialmente) ha consentito all’Italia di realizzare nei trent’anni successivi al secondo dopoguerra una crescita irripetibile grazie ad enti pubblici con funzioni di politica industriale come l’IRI e a manager pubblici con una loro autonomia decisionale. Il segreto sta nel fatto che le imprese pubbliche collocate in settori strategici, per quanto detto prima e per quanto mostrato da diverse ricerche empiriche, utilizzano maggiori quote di profitto per finanziare gli investimenti. D’altro canto proprio la progressiva marginalizzazione del manager pubblici e l’ingresso della politica nelle leve decisionali ha costituito l’anticamera del superamento dell’economia mista, a vantaggio dei successivi processi di liberalizzazione e privatizzazione perseguiti dalla politica sempre più succube dell’ideologia liberista.
Altro passaggio dell’articolo è l’immancabile contrapposizione tra l’apparenza dei liberisti produttivi senza l’aiuto dello Stato e i neostatalisti che pur di avere lo Stato interventista accetterebbero con piacere l’attività tanto improduttiva quanto faticosa di “scavare buche per poi riempirle” (punto d). Dobbiamo allora contestualizzare l’affermazione di Keynes relativa alle famose “buche da scavare”. Keynes diceva che in tempi di crisi sarebbe più saggio prendere i lavoratori disoccupati per far scavare delle buche e poi riempirle, che non lasciare a casa migliaia di persone…questo è un paradosso per significare che in tempi di crisi, in cui c’è ristagno di liquidità, qualsiasi forma di sostegno alla domanda è preferibile all’austerità, definita come prodotto parodistico dell’incubo di un contabile. Aver compreso cum grano salis il senso di questo paradosso avrebbe aiutato a comprendere la necessità dell’intervento tempestivo dello Stato in settori ad alta utilità sociale nel manifestarsi di condizioni critiche quali quelle della crisi economico-sanitaria.
In conclusione abbiamo il classico richiamo del debito pubblico come fardello intergenerazionale (punto e) senza la benché minima comprensione che la vera ricchezza della collettività può essere alimentata dalla spesa pubblica nei termini di creazione di lavoro e di servizi pubblici (scuola, sanità, infrastrutture ecc.) che le generazioni future dovrebbero ereditare.
Utilizziamo il seguente passo di Keynes di Autarchia economica (1933) per condensare le critiche riprese in questi ultimi punti:
« …il secolo XIX aveva esagerato sino alla stravaganza quel criterio che si può chiamare brevemente dei risultati finanziari… Tutta la condotta della vita era stata ridotta a una specie di parodia dell’incubo di un contabile. Invece di usare le loro moltiplicate riserve materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, gli uomini dell’Ottocento costruirono dei sobborghi di catapecchie; ed erano d’opinione che fosse giusto ed opportuno di costruire delle catapecchie perché le catapecchie, alla prova dell’iniziativa privata, “rendevano”, mentre la città delle meraviglie, pensavano, sarebbe stata una folle stravaganza che, per esprimerci nell’idioma imbecille della moda finanziaria, avrebbe “ipotecato il futuro”, sebbene non si riesca a vedere, a meno che non si abbia la mente obnubilata da false analogie tratte da una inapplicabile contabilità, come la costruzione oggi di opere grandiose e magnifiche possa impoverire il futuro».
Punto 3. Proseguendo nell’articolo arriviamo ai presunti costi derivanti dall’ostacolare la salvifica azione delle forze di mercato:
« I costi delle politiche sostenute dai “liberisti” sono bassi ma anche visibilissimi…Se si chiude una fabbrica improduttiva ad esempio ci sono costi immediati e visibili».
In sostanza qui si afferma che se si salvano i lavoratori di una fabbrica in fallimento la percezione immediata è positiva ma si alimenta l’inefficienza, mentre il mercato potrebbe provvedere alla riallocazione di quei lavoratori in contesti più produttivi. Questo argomento presuppone una serie di ipotesi fallaci, soprattutto allo stato attuale di crisi generalizzata. Si presuppone che le imprese che falliscono sono meno produttive, mentre invece abbiamo tantissimi casi di imprese che erano competitive ma che a causa della logica di breve periodo votata al conseguimento non di una strategia di crescita ma degli utili immediati, tipica di una economia finanziarizzata, sono state smantellate strutture produttive lasciando a spasso i lavoratori. D’altronde la finanziarizzazione accorcia l’orizzonte del rendimento distorcendo la logica economica e snaturando gli investimenti perché per produrre serve tempo: nella Teoria Generale (1936) Keynes coglie questo aspetto affermando che
«lo scopo sociale dell’investimento consapevole dovrebbe essere sconfiggere le oscure forze del tempo e dell’ignoranza che avviluppano il nostro futuro. Invece, lo scopo privato dei più esperti investitori di oggi è to beat the gun come dicono gli americani (scattare prima del segnale di partenza), metter nel sacco la gente, riuscire a passare la moneta cattiva o svalutata ».
Le logiche della globalizzazione poi possono poi indurre, come noto, a delocalizzazioni in paesi con minori salari e minori tutele di standard lavorativi, avviando processi deflattivi nelle nazioni che subiscono il ricatto. Soprattutto nel caso di crisi per carenza di domanda, magari passeggera, senza l’aiuto dello Stato nel sostenere i livelli di domanda si potrebbero verificare affrettate chiusure di battenti di imprese con ulteriore aggravio in termini di crollo di redditi e costi per ammortizzatori sociali. Tra l’altro un numero significativo dei più noti macroeconomisti (quindi in definitiva mainstream) come Summers, Blanchard, Eggertsson, Krugman ecc. concorda sul fatto che, anche prima della crisi del Covid i paesi più sviluppati si trovassero nel lungo solco di una crescita stagnante (fenomeno della “stagnazione secolare”) le cui caratteristiche in condizioni di trappola della liquidità sconsiglierebbero altamente le soluzioni mainstream “classiche” per il rilancio dell’economia: una su tutti è sconsigliabile il taglio dei costi del lavoro tramite la flessibilità, che avrebbe un effetto ancor più depressivo riducendo ancor di più i redditi e l’occupazione.
Insomma da questa situazione, oggi più che mai, non ci possono sollevare le forze salvifiche del mercato tanto più deleterie quanto più azionate tramite politiche di austerità e di flessibilizzazione del lavoro (le cosiddette riforme strutturali). Occorre invece che lo Stato intervenga attraverso investimenti pubblici e politiche di sostegno del lavoro. D’altronde, come ricordato da Keynes nei I mezzi per raggiungere la prosperità (1933):
« E’ un grossolano errore credere che le politiche per aumentare l’occupazione e quelle per portare il bilancio in equilibrio siano incompatibili. E’ vero piuttosto il contrario. Non c’è possibilità di equilibrare il bilancio eccetto che con l’aumentare il reddito nazionale, che corrisponde in gran parte ad un incremento di occupazione»
In conclusione nell’articolo del Corriere viene lanciato un monito per neostatalisti italiani che non si starebbero accorgendo del fatto che « si sta determinando una pericolosa sovrapposizione fra la divisione mercato/Stato e la divisione Nord/Sud, una sovrapposizione che alla lunga potrebbe far correre qualche rischio alla stessa unità nazionale». Al di là dei risvolti politici interni agli schieramenti dei partiti italiani, tale affermazione non tiene conto di quella che Rodrik ha definito come una verità fondamentale dell’economia: i livelli di sviluppo nei paesi avanzati sono in relazione positiva con i livelli di spesa governativa, ovvero anche le economie di mercato per svilupparsi hanno bisogno dello Stato (pensiamo alle infrastrutture, ai beni di pubblica utilità alla ricerca ecc.). Poi certamente quanto sia attivo lo Stato nell’indirizzare l’economia è questione che può dividere e che vede i liberisti sulla difensiva, ma comunque se lo Stato non fornisce le condizioni di sviluppo questo non può venire dal solo mercato.
Tirando le fila di quanto fin qui detto, in chiave strategica o tattica che sia, non si può lasciare l’appropriazione del pensiero keynesiano alla narrazione neoliberista del mainstream, sia nella forma di impossessamento (i veri keynesiani sarebbero i liberisti “rivisitati”) sia nella forma di accusa (i falsi keynesiani sarebbe chi vuole realmente uno Stato interventista). Questa narrazione mainstream giustificherebbe un utilizzo dello Stato nella classica dinamica di un intervento estemporaneo finalizzato alla privatizzazione dei profitti e alla socializzazione delle perdite, per poi ripartire con la vecchia logica economica e un tessuto sociale definitivamente lacerato da una crisi che non ci abbandonerà per lungo tempo.
Una critica completa e rigorosa al neoliberismo non può esimersi quindi dallo scontro in questo campo, una critica che Keynes aveva elaborato come visione di società ben prima di realizzare l’architettura economica che l’avrebbe potuta rendere effettiva. Ci riferiamo a una visione di società necessaria a concepire il ruolo di uno Stato forte ed interventista che non è mera somma di individualità, ma è una “unità sociale” portatrice di una utilità sociale, così come espresso nel La fine del lasseiz-faire (1926):
« il mondo non è governato dall’alto in modo che gli interessi privati e quelli sociali coincidano sempre; né condotto quaggiù in modo che in pratica essi coincidano. Non è una deduzione corretta dai principi di economia che l’interesse egoistico illuminato operi sempre nell’interesse pubblico. Ne è vero che l’interesse egoistico sia sempre illuminato…L’esperienza non mostra che gli individui, quando costituiscono un’unità sociale, siano sempre di vista meno acuta di quando agiscono separatamente».
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