Il federalismo delle repubblichette
di Massimo Villone in AAVV, Covid. Le cento giornate di Napoli, Ed. Repubblica-Guida, Napoli 2020
È opinione diffusa che dopo il Covid-19 niente sarà più come prima, nella politica e nelle istituzioni. Può essere vero. Ma in che direzione volgerà il cambiamento?
La Costituzione non pone una speciale disciplina per l’emergenza, ma ciò non comporta l’impossibilità di fronteggiarla. L’art. 77 prevede i decreti-legge, equiparati alla legge. Sincronicamente, libertà e diritti fondamentali consentono limitazioni fondate in vario modo sulla legge e riferite in specie a motivi di sanità, di sicurezza, di incolumità pubblica, purché temporanee, e rispondenti a criteri di proporzionalità e ragionevolezza. Ne segue che nella risposta all’emergenza è centrale il ruolo del parlamento, cui spetta la conversione del decreto-legge, ed è comunque riservata, pur in misura variabile, la determinazione dei limiti imposti a diritti e libertà.
Il modello costituzionale viene però in parte disatteso. Il 31 gennaio 2020 il governo dichiara lo stato di emergenza in base all’art. 24 del Codice della protezione civile (d. leg. 1/2018). Una base di per sé opinabile, per la diversa natura dell’emergenza da Covid-19. L’esecutivo affronta poi il contagio con alcuni decreti-legge e soprattutto con decreti del Presidente del consiglio dei ministri (DPCM). Atti amministrativi che, diversamente dai decreti-legge, si sottraggono al vaglio del Presidente della Repubblica e a quello del Parlamento. Si aggiungono centinaia di decreti, ordinanze, circolari, direttive di autorità diverse: singoli ministri, protezione civile, commissari, governatori, sindaci.
Il Parlamento è emarginato. Poche informative alle Camere del premier e di alcuni ministri, senza voto conclusivo. L’indirizzo governativo viene essenzialmente concertato tra esecutivi in cabine di regia e conferenze Stato-regioni-enti locali. Dissensi e scontri sono frequenti. In ogni caso, il governo non ricorre ai poteri sostitutivi di cui pure dispone nei confronti degli organi di regioni ed enti locali.
I governatori del centrodestra scrivono a Mattarella contestando la incostituzionalità dell’operato del governo e chiedendo sia rispettato il riparto delle competenze. In sostanza, vogliono avere mano più libera nella ri-partenza. Quando un’ordinanza della Presidente della Calabria Santelli non segue gli indirizzi di governo il ministro Boccia ai poteri sostitutivi preferisce il ricorso al Tar. Una strategia che segnala piuttosto una debolezza, anche se il Tar dà poi ragione al governo. Ma è in linea con l’appeasement che il ministro ha già mostrato di preferire per l’autonomia differenziata.
Il DPCM del 17 maggio cambia rotta. Dopo uno scontro anche aspro (La Verità, 16 maggio), dalle restrizioni tendenzialmente uguali per tutti, con motivate eccezioni, si passa a una riapertura territorialmente differenziata, sotto la responsabilità delle regioni, entro linee guida stabilite dal governo, ma in realtà contrattate e riviste con le stesse regioni. Nella lettura generale, i governatori hanno vinto. Forse troppo. Il Presidente De Luca rifiuta l’accordo raggiunto nella conferenza Stato-regioni, censurando il governo che lascia tutto alle regioni per scaricarsi di responsabilità. Trionfale, invece, Bonaccini: “abbiamo scritto una pagina importante”. Non dubita che le regioni, con la libertà di ordinanza, abbiano conquistato un protagonismo politico.
Di certo, i diritti e le libertà dei cittadini italiani sono largamente nelle mani dei governatori. È un fatto senza precedenti, ed è paradossale. Con l’emergenza, si poteva pensare a una spinta a rafforzare lo Stato. Si giunge invece a una maggiore frammentazione del paese. È prova di una debolezza di Palazzo Chigi, e di una strategia istituzionale sbagliata. Mentre Bonaccini e Zaia brillano di nuova luce, persino nella prospettiva di una successione al governo in carica.
Si sentono proposte di riportare allo Stato la sanità. Ma i governatori hanno già fatto muro, essendo la sanità il piatto più ricco per le regioni nella gestione del potere e del consenso. Ancora Bonaccini dichiara bellicosamente: “… sull’autonomia non intendo arretrare di un centimetro: servono invece livelli essenziali garantiti a tutti i cittadini, da nord a sud”.
Si dice, ancora, che il regionalismo differenziato è tra le vittime del Covid-19. Ma nell’emergenza una maggiore autonomia le regioni l’hanno di fatto acquisita, sul campo. Le pulsioni separatiste possono riaffiorare nell’oscurità delle conferenze Stato-regioni. Come riaffiora il disegno di concentrare le risorse sulla locomotiva del Nord (cfr. gli artt. 231 e 232 del decreto cd Rilancio), reso ancor più pericoloso dalla previsione che la crisi colpisca il Mezzogiorno più duramente che il Nord (cfr. gli studi Svimez, e da ultimo Viesti, su Sbilanciamoci, 18 maggio). Se poi domani qualche regione decidesse, ad esempio, di regionalizzare la scuola con propria legge, troveremmo a Palazzo Chigi la forza di un deciso no?
Certo, non c’è limite al peggio. Con autonomie come quelle chieste da Lombardia. Veneto ed Emilia-Romagna su strade, autostrade, porti, aeroporti, ferrovie, sarebbe stata una concreta possibilità, e non solo un’ipotesi onirica, blindare i confini di questa o quella regione. Realtà o fantasia, per la prossima pandemia?
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