La Repubblica Romana del 9 febbraio 1849
di Massimiliano Giannocco
9 febbraio 1849
Tra tutte le date di rilievo nella millenaria e complessa storia di Roma, questo giorno merita una particolare attenzione perché simboleggia la conquista della Libertà in una città da secoli sotto il giogo del Cesaropapismo.
Il 9 febbraio 1849 venne proclamata la Repubblica Romana, quattro giorni dopo l’istituzione dell’Assemblea Costituente. Vi si arrivò per insurrezione popolare contro Papa Pio IX, costretto miseramente alla fuga il 24 novembre dell’anno precedente, figura di spicco tra coloro che ostacolarono il processo risorgimentale che avrebbe condotto all’unificazione d’Italia.
La Repubblica Romana durò pochissimo, poiché il 4 luglio dovette soccombere all’invasione francese del futuro Napoleone III, ma in quei 5 mesi i cittadini capitolini e di tutto il territorio allora facente parte dello Stato della Chiesa conquistarono la dignità di popolo libero.
Emblema mirabile della fusione degli ideali liberali e mazziniani fu la Costituzione della Repubblica Romana che, unitamente allo Statuto Albertino del 1848, ispirò i padri costituenti della Carta redatta nel 1947. In maniera chiara e netta vennero impressi i principi illuministici dell’eguaglianza, della libertà e della fraternità, come dell’inviolabilità delle persone e delle proprietà, persino della sacralità del domicilio. Vi furono traslati fondamenti sicuramente riconducibili al liberalismo lockiano, tanto che, come riportato in vari studi su quell’epoca, si veda ad esempio l’opera “Roma senza il Papa” di Giuseppe Monsagrati (Editori Laterza), la Repubblica Romana rappresentò un esempio autentico di sistema liberale. Ciò anche riguardo al delicatissimo rapporto con il colle Vaticano, disciplinato in termini democratici e garantisti con queste due disposizioni: “Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici. Il Capo della Chiesa Cattolica avrà dalla Repubblica tutte le guarentigie necessarie per l’esercizio indipendente del potere spirituale”.
I rivoluzionari romani, ispirati da una lettura politica del Cristianesimo che sembra risalire alla “Lettera sulla tolleranza” di John Locke, non combatterono contro la religione, ma vollero ricondurla alla sua più pura connotazione, corrotta da secoli di potere temporale dell’autorità papale. Lo stesso poeta e patriota Goffredo Mameli, genovese che a Roma perse la vita, a soli 22 anni, per difendere la giovane Repubblica, espresse tali intenzioni: “Quando il Papa potrà tornare ai suo santi uffici di sacerdote e più non sarà distratto da mondani pensieri, la religione rifulgerà del suo primo splendore, i popoli credenti saluteranno il Vaticano come sede vera del Vangelo di Cristo e il Campidoglio come oracolo di nuova sapienza civile, come porto di salute a tutte le genti italiane”.
Il clima meraviglioso che si respirava in quei giorni a Roma, come in tutto il territorio che comprendeva non solo il Lazio, ma l’Umbria, le Marche, la Romagna, fino a Bologna, fu descritto da Giuseppe Garibaldi nelle sue Memorie autobiografiche: “I deputati della Costituente! E fu spettacolo maestoso quello dei figli di Roma chiamati nuovamente ai comizi dopo tanti secoli di servaggio e di prostrazione sotto il giogo nefando dell’impero e quello, più vergognoso ancora, della teocrazia papale”.
Il grande nizzardo mostrò nuovamente il mai sopito entusiasmo giovanile per l’Urbe, frutto degli studi classici guidati dall’amato precettore Arena, per la “Roma dell’avvenire … rigeneratrice d’un gran popolo”, perché “Roma per me è l’Italia, e non vedo Italia possibile, senonché nell’unione compatta, o federata, delle sparse sue membra. Roma è il simbolo dell’Italia una, sotto qualunque forma voi la vogliate”.
E, infatti, come evidenziato da Alfonso Scirocco, “Roma si poneva al centro del movimento nazionale”, il che spiega il coinvolgimento nella Repubblica Romana non solo di romani, marchigiani, romagnoli e bolognesi, ma delle genti di tutta Italia, come i già citati Mameli, Garibaldi e, tra gli altri, Giuseppe Mazzini. Il grande genovese fu, insieme al repubblicano forlivese Aurelio Saffi e al liberale romano Carlo Armellini, membro del Triumvirato, organo avente funzioni governative.
Il 5 luglio 1849, all’indomani della caduta della Repubblica Romana, Mazzini scrisse una incoraggiante lettera ai Romani: “I vostri padri, o Romani, furon grandi non tanto perché sapevano vincere, quanto perché non disperavano nei rovesci”. Le sue parole non furono vane perché i moti liberali e repubblicani non si placarono nella città, dopo il ritorno del Papa Re, e trovarono nuovo successo con la breccia di Porta Pia, nel 1870.
E’ un bene, dunque, che, ogni anno, Roma celebri il 9 febbraio 1849. E’ l’occasione per ricordare i propri eroi e martiri di libertà e democrazia, a partire dall’oste romano Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio, la cui storia è commovente per il coraggio e la tragedia che gli incorse, insieme al figlio. Il suo monumento si trova a due passi da Porta San Pancrazio, oggi sede del Museo della Repubblica Romana, sul Gianicolo, colle simbolico del Risorgimento capitolino.
Una commemorazione, questa del 9 febbraio, che appare sempre più sbiadita, ormai ignorata da buona parte della popolazione italiana, ma che deve restare viva in chi, ancora oggi, crede negli ideali liberali e mazziniani, auspica nel recupero del dialogo tra le due fonti di ispirazione del Risorgimento italiano, da considerare ancora attuali nel processo di democratizzazione liberale di cui ancora l’Italia difetta, in un periodo storico in cui la versione peggiore del populismo rischia di affossare le conquiste di libertà faticosamente conseguite.
Ecco perché la Repubblica Romana non va dimenticata, ma va celebrata annualmente non soltanto nella Capitale, ma in tutto il territorio nazionale. Del resto, come ha scritto Denis Mack Smith, “La valorosa difesa di Roma contro queste forze preponderanti (austriaci, spagnoli, francesi e borbonici, ndr), insieme alla presenza di così tanti italiani di altre regioni, fece di essa un momento fondamentale dello sviluppo del sentimento nazionale”. Senza l’unione d’intenti tra liberali e mazziniani, senza il dialogo tra il pensiero liberale e quello democratico, non ci sarebbe stata la Repubblica Romana e, senza di essa, il Risorgimento italiano non avrebbe realizzato il sogno secolare dell’Unità d’Italia.
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