Il diritto allo studio
di Antonio Pileggi
Alcuni giornali ci dicono che una ragazza italiana di diciotto anni ha messo all’asta la sua verginità per far fronte alle spese dei suoi studi universitari. La notizia crea sconcerto, ma i giornali hanno fatto bene a pubblicarla perché bisogna sempre conoscere cosa passa per la mente delle persone di ogni età in questi nostri tempi caratterizzati da un declino senza precedenti nella storia del nostro Paese. A voler considerare il solo aspetto economico-sociale, siamo in presenza di una economia e di una povertà da dopoguerra senza che ci sia stata una guerra. Il che la dice lunga sul decadimento morale e politico che è sotto i nostri occhi.
C’è un’altra notizia che richiede alcune considerazioni. In un’assemblea di un partito politico, Liberi e Uguali, recentemente è stata formulata la proposta di favorire l’accesso agli studi universitari abolendo le tasse a carico degli studenti. La proposta ha sollevato polemiche di varia natura, principalmente sugli aspetti fiscali e sulla sostenibilità della spesa a carico del pubblico erario. Sono emerse anche idee rivolte a non considerare la differenza tra eguaglianza ed eguaglianza dei punti di partenza e a non tenere conto della particolare tutela prevista dalla Costituzione per i capaci e meritevoli.
La questione posta attraverso la proposta di abolire le tasse universitarie alla stregua di quanto già avviene in Germania, Scozia e paesi Scandinavi, non va considerata come una mera promessa elettorale. Essa è da accogliere con interesse perché rimette al centro del dibattito politico il tema del diritto allo studio in un contesto storico caratterizzato da un impoverimento generale del Paese. Peraltro l’Italia è un Paese che le tasse universitarie le ha aumentate molto e che, nel contempo, ha lunghi elenchi di “idonei” a ricevere i benefici previsti dal diritto allo studio, ma rimasti insoddisfatti per scarsità di risorse in bilancio.
I tagli di risorse alla scuola e all’università sono noti. Ed è sotto i nostri occhi l’impoverimento continuo dei ceti medi. Il disagio sociale è sempre più diffuso. Gli abbandoni dell’università sono da record e non ci sono politiche serie per combattere la dispersione scolastica e universitaria. Siamo lontani dagli obiettivi che erano stati stabiliti a livello europeo per l’aumento dei laureati. Il confronto dei dati dell’Italia con quelli dei Paesi più avanzati dovrebbe fare arrossire i decisori politici. Le statistiche certificano l’impoverimento culturale del nostro Paese: solo il 18 per cento della popolazione italiana è laureata. I dati Eurostat ci dicono che in Europa, nel 2016, è cresciuta fino al 39,1% la percentuale dei laureati tra i 30 e i 34 anni mentre l’Italia occupa il penultimo posto con il 26%. Dopo di noi c’è solo la Romania, con il 25,6%.
La diciassettesima legislatura appena conclusa, caratterizzata da un Parlamento “abusivo” perché eletto con una legge elettorale incostituzionale, ha dedicato molto del suo tempo a discutere di riforma della Costituzione, poi bocciata dal popolo italiano nel referendum del 4 dicembre 2016, e a fare una legge elettorale, poi bocciata dalla Corte Costituzionale. Non c’è stata attenzione alle questioni inerenti al diritto allo studio, ma è stata posta in essere l’ennesima riforma della scuola con il varo di una legge propagandisticamente intitolata “buona scuola”, che è molto contestata sotto diversi profili. Al riguardo, mi limito a sottolineare quanto ha dichiarato Luciano Corradini: “la legge non cita neppure la Costituzione. Sicché dire che si vuole una buona scuola e che gli insegnanti insegneranno meglio, “… “ senza indicare esplicitamente nella legge le grandi direttrici valoriali della Costituzione, significa perdere la “visione” o l’ ”anima” della scuola repubblicana. Penso per esempio al fine di tutto l’ordinamento, che è il pieno sviluppo della persona umana…”.
Nella Costituzione il diritto allo studio è ben definito. L’art. 34 afferma che la scuola è aperta a tutti e che i capaci e meritevoli, anche se privi d mezzi, hanno diritto di raggiungere i più alti gradi degli studi. E a questa affermazione di principio la Costituzione aggiunge che la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze attribuibili per concorso. Al riguardo, è da precisare che il principio selettivo dei capaci e meritevoli attraverso un concorso non appartiene al mondo della pedagogia, ma è stato ben definito, nei suoi contenuti procedimentali, dai Padri Costituenti.
La tutela dei capaci e meritevoli di cui all’art. 34 non lascia dubbi interpretativi perché l’istituto del diritto allo studio non può essere disgiunto dall’art. 30 della Costituzione che pone in capo alla famiglia precisi doveri e diritti. Sono tutti diritti e doveri contenuti nel Titolo secondo che regola i “rapporti etico sociali”. E l’art. 30, testualmente, prevede che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”. Da ciò discende in modo inequivocabile che gli interventi dello Stato esplicano un’azione di supplenza e sussidiaria per i capaci e meritevoli privi di mezzi. Questa azione di supplenza dello Stato è stata ampiamente sostenuta da Salvatore Valitutti, l’ultimo ministro liberale a Viale Trastevere, che tra l’altro ha scritto un interessante libro sul diritto allo studio dopo gli eventi del ’68 del secolo scorso. Nel libro viene confutata, alla luce della normativa costituzionale, quella che lui definiva “la concezione giacobina” del diritto allo studio. E viene ampiamente citato Luigi Einaudi che, da liberale sensibile alle questioni che interessano i primi e gli ultimi, è stato un forte sostenitore del diritto allo studio per i soggetti privi di mezzi.
Anche l’oggetto dello studio è ben definito dalla Costituzione, che all’art. 33 così recita: “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Quindi il contenuto del diritto attiene allo studio dell’arte e della scienza.
Invero il significato di “studium” latino ci fa ricordare l’amore e l’impulso interiore a specifiche attività o inclinazioni. Il concetto di studio si ricollega al sapere, al saper fare e alla necessità di imparare ad imparare. In questi tempi, in cui i codici di apprendimento sono in continua evoluzione, è sempre più importante il compito della scuola e dell’università se si considerano le necessità legate ai nativi digitali che hanno, mai come prima, fonti immense di informazioni. C’è l’esigenza, diventata primaria, del potenziamento della ricerca scientifica e degli studi mirati ad alimentare il libero spirito critico. E la libertà è tale quando disponga di idonee e complete informazioni. Siamo passati dalla carenza alla sovrabbondanza delle fonti e abbiamo il problema di come imparare a selezionare, nella immensità dei dati a disposizione, quelli da mettere a frutto con rigore scientifico.
L’insegnamento e l’apprendimento nelle scuole tecniche e nei politecnici sono sempre più a rischio di una veloce obsolescenza. E i mestieri e le professioni che cambiano nell’arco della vita di un individuo impongono la necessità di alzare sempre di più e di generalizzare la preparazione culturale di base. I Paesi più avanzati ormai si pongono seriamente il problema dell’apprendimento per tutto l’arco della vita (lifelong learning) e approntano sistemi e metodi per rispondere a questa esigenza. L’Italia è in forte ritardo anche su questo versante. Ci sono state esperienze fin troppo datate, si pensi alle 150 ore del secolo scorso. Molta strada c’è da fare e si aprono nuovi orizzonti anche per affrontare la sfida di un fenomeno particolarmente grave: l’analfabetismo di ritorno.
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